lunedì 5 giugno 2017

Fear of the dark: my (DNF) Istria 100 race report.

Fear of the dark.

Paura. Un sacco di paura. Una paura fottuta in realtà. Di quello che sto facendo. Del perchè. Di dove mi trovo e di ciò che mi sta intorno. La notte sta calando, il fascio della frontale si allunga e si restringe al tempo stesso. Lo sguardo non spazia più intorno al sentiero, ma solo su di esso. Lí davanti, quattro o cinque metri al massimo, quanto può puntare la frontale accesa al massimo. 

Non sono neppure su questa salita. In lontananza vedo altre luci, altre frontali. Sembrano disegnare una pista immaginaria del crinale di questo bestione che ho davanti. 

Mi fermo un attimo, mi giro all´indietro, e ancora vedo altre frontali dietro di me. E´come se ognuno di noi seguisse l´altro nel buio. La notte è pure bella, abbastanza chiara e con uno di quei cieli stellati che ti fanno pensare che a qualcuno lassù sia scappata decisamente la mano. 

Eppure la notte addosso a me è nera, scura, di un nero cupo, infido, cattivo. E´un nero buio. Ecco di che cosa ho paura. Ho paura di questo nero, di questa notte. Ho paura del buio. 


Il prima. 

Raccontare tutto quanto accaduto prima di tutto questo non è facile, di sicuro. Non saprei neppure da dove partire. Dalla gloriosissima notte della SDW100 del Giugno scorso? O da una Domenica di maratona e pioggia ghiacciata a metà Ottobre nel bel mezzo dello Schwarzwald, o ancora da un pomeriggio qualsiasi dello scorso Inverno, trascorso un po´sul divano a guardare il soffitto, un po´a trascinarmi fuori e a ciucciarmi 4 o 5 chilometri camminando nella nebbia e nell´umidità. 

Mettiamola così, per chi non lo avesse già letto o per quei due lettori ai quali magari non ho avuto modo di raccontare tutta la storia. Ho fatto un Inverno schifoso. Ma non schifoso nel senso „ah, non mi sono allenato abbastanza“ o cose così. No, schifoso nel vero senso della parola. Il tempo ha fatto schifo, le giornate hanno fatto schifo, io mi sono fatto schifo. Come persona, come runner o presunto tale, insomma come tutto. 

Per tanti fattori: nuove routine quotidiane, nuovi impegni e obblighi, insomma le cose che ognuno di noi prima o poi affronta. E´che io all´inizio le ho affrontate male, da schifo appunto. E così col passare dei mesi ho perso focus, voglia, intensità, energia. 

E anche salute, visto che poi neppure trovarsi con un tubo nello stomaco nel mezzo di quello che avresti sognato come il tuo training camp per Istria è stato il massimo della vita. 

Quindi in tutto questo, la domanda sorgerebbe spontanea: ma perchè mi sono iscritto a Istria 100? 

Anche qui i motivi sarebbero tanti. Diciamo che di base secondo me è pur sempre bello e importante avere un obbiettivo da guardare, desiderare e costruire giorno dopo giorno. Anche nel momento più nero. Ti da focus, concentrazione, in un certo senso è un motivo per guardare allo schifo che hai intorno e dirti che magari ne vale pure la pena, che correre una 100 miglia è una cosa bella, bellissima e ti ripaga di ogni sforzo e impegno e casino vissuto.

E invece no. Correre una 100 miglia non è bello. Fa schifo. E´ un inferno. Un´umiliazione. E fa male, dentro e fuori. E se non hai scacciato quei demoni che hai dentro, quello schifo esterno, di sicuro non sarà una 100 miglia a salvarti, ad aiutarti a vincere chissà quali paure o ansie. Anzi, te le ingigantisce le paure e le ansie, e finisci per stare ancora peggio. 

Quindi sì, tornando al motivo per il quale mi sono iscritto a Istria: volevo qualcosa di bello a cui pensare, sul quale concentrarmi. Da preparare e di cui parlare. Vedere un posto nuovo, immaginare quel weekend come un sollievo e un´uscita dal buio dell´Inverno.

E invece appunto, nel buio ci sono finito dalla testa ai piedi. 


Il weekend di gara. 

Finalmente le ferie. O almeno delle piccolissime ferie. Una settimana o poco più, ma cavoli dopo sei mesi di apnea, era quello che ci voleva. 

E così trascorro un paio di giorni a riscoprire alcuni rituali che mi sembravano lontanissimi. Ti rasi, ti metti a posto. Prepari i borsoni, tiri giù la lista di tutto quello che ti viene in mente di portare. E mai come stavolta sarebbe servita l´artiglieria al completo, perchè non c´è quasi nulla di più incerto che il meteo a Istria a inizio Aprile. Puoi trovarci la neve, com´è poi stato qualche giorno dopo la gara, o il Sole a picco che ti brucia in testa, o la pioggia, o la bora che ti rompe la faccia. 

E così, caricato tutto in auto, con Ari si fa rotta verso l´Italia per poi piegare in direzione Slovenia e Croazia. Viaggio notturno ovviamente, con passaggio stavolta sul San Bernardino (Gottardo no grazie, comunque, e a quell´ora era pure chiuso). 

I chilometri passano anche veloci in effetti, anche perchè tutto sommato mi fa piacere essere di nuovo in viaggio, in un viaggio vero. Muovermi, puntare un´altra pagina di atlante. E poi passare di nuovo per il Belpaese, costeggiando le zone del bergamasco e intorno al Garda, che conosco benissimo per esserci passato in una vita precedente. Le uscite autostradali, i cartelli che indicano „Monte Baldo“, „Lessinia“, „Berici“. Ari dorme, il nastro fa rewind di una decina d´anni abbondante. Feelings. 

E poi finalmente vedo (si fa per dire) Trieste. Diciamo che la intravedo tra un tunnel e un cavalcavia dell´autostrada. E poi ancora i cartelli che diventano bilingue man mano che ci avviciniamo al confine con la Slovenia. Passaggio rapido in Slovenia e immediato ingresso in Croazia, in Istria. 

La notte ora è più scura e sta iniziando a piovere (tutto previsto e visto nei vari bollettini dei giorni precedenti, e dovrebbe essere così che questa pioggia che arriva adesso, di Giovedì mattina, sarà l´ultima che vedremo nella nostra permanenza istriana: e così sarà in effetti). 

Ore 6, o 5 e mezza del mattino. Finalmente arrivati all´albergo. Passeggiata sul lungomare, stavolta piovoso e bagnatissimo, puntata in una panetteria dove si parla un misto italiano-tedesco-croato-e chissà cosa, e si ritorna alla macchina per un paio d´ore di nanna e discorsi.

La mattinata passa poi tranquilla, tanto lo so cosa è importante oggi: andare al Race HQ nel palazzetto di Umag per prendere il numero e guardarsi un paio di stand. Tutto fatto alla perfezione e senza quasi nessuna perdita di tempo, e qui davvero faccio conoscenza per la prima volta con il livello di organizzazione messo giù da Alen a dal suo gruppo. Si „vede“ comunque una certa internazionalità dell´evento, che fa parte del baby UTWT, e al tempo stesso si può ancora respirare un´aria abbastanza familiare e semplice, come piace a me insomma. 

Ci sarebbe da stare di più, da vedere, conoscere, provare. E invece la giornata sta volgendo al termine, e cosa più importante, so che devo cercare di ottimizzare ogni ora di sonno possibile prima della partenza, fissata per le 16 del Venerdì (ma tra una cosa e un´altra bisogna essere pronti già intorno alle 13, visto anche il trasferimento in autobus verso Labin). 

La notte dormo anche abbastanza bene (sarà forse per il fatto di aver quasi saltato la notte precedente per il viaggio?). In realtà quindi ho fatto il contrario di quanto scritto nei manuali, che raccomandano sempre di dormire bene la penultima notte prima della gara più che l´ultima, visto che poi entrano in gioco adrenalina e ansie varie che comunque non conciliano il massimo con il sonno. 

Perchè parlo tanto del mio sonno? Perchè mi sa che stavolta questo piccolo „errore“ (più dovuto a scelte logistiche e di viaggio che altro) è stato il primo mattone per quanto accaduto poi in gara e per le sensazioni avute in generale per tutto il pomeriggio successivo. 

Perchè sì, in effetti alla partenza da Umag, sull´autobus, mentre tutti sono lì a salutarsi e abbracciarsi e a chiacchierare del più e del meno, e mentre Ari fuori aspetta che partiamo, lì sull´autobus dicevo, comincio a sentirmi stanco. 

Boh, forse è che non parlo con nessuno perchè non capisco una parola di quello che viene detto. Forse è che sto mangiando due barrette di una roba mai vista e provata prima (bravo Manu, sempre meglio), che non sono neppure malaccio, fatto sta che mi accorgo che come d´improvviso mi sta calando addosso una stanchezza forte, intensa e diversa al tempo stesso, mai provata prima. 

Stanco di essere lì? Stanco per non aver dormito abbastanza? Stanco di tutto quello che c´è stato prima? Stanco di questo cavolo di viaggio in pullman che sembra eterno (specie all´inizio, con il motore che fa le bizze e un paio di soste in autostrada)? Oppure stanco di quello che sta per arrivare? Tutto insieme probabilmente, fatto sta che no, c´è qualcosa che non va. 

Lì a Labin poi è tutto bello. C´è un bel Sole, me ne sto sulla scalinata della piazza insieme agli altri, riesco pure a salutare il mitico @Ico. Un paio di bei messaggi di Ari, ancora un´occhiata al cellulare nella „speranza“ di ricevere ancora un parola, un incitamento di qualche amico, quel consiglio giusto. Nulla, tutto silenzioso. 

Così mi rassegno, finisco la barretta sconosciuta e qualche sorso di Isomax (la metà abbondante „esplosa“ nella start bag con tanto di felpa inondata di un bel liquido salino appiccicoso), e cerco di isolarmi un attimo. Isolarmi dalla musica, dal vociare continuo dei runner intorno a me, dalla voce dello speaker che pompa dalle casse appena dietro di me. 

E´una festa, eccome se lo è, ma io mi sento sempre più stanco, sempre più „solo“ in mezzo a tutto questo. 

Mi alzo un attimo, mancheranno 5 minuti o poco più alla partenza, vediamo di improvvisare qualche esercizio di riscaldamento. Magari la stanchezza va via, magari entra la modalità da battaglia. Magari è solo un po´di ansia da pre gara dai, e magari appena questo qua avrà finito di elencare nomi di autorità cittadine, sponsor e top runner, e finalmente darà il via a questa fottutissima 100 miglia, tutto sparirà e sarà piú leggero, e avrà finalmente inizio il viaggio. 

Tre, due, uno. VIA. Via, finalmente! 

E stop subito, ovvio. Perchè l´abitudine di partire in fondo al gruppo non l´ho ancora persa, anzi. E questo significa ingorgo subito mentre si attraversa il borgo vecchio di Labin. Che tra l´altro è davvero grazioso, come tutti questi paesini appollaiati sulle colline in questa zona dell´Istria. Ecco, di sicuro la cornice di paesaggio e di natura merita di sicuro, che ci si venga per spaccarsi su un sentiero o anche solo per fare un bel giro turistico e gastronomico. 

Ecco, io però adesso rientro nella prima categoria di scelta. Sono qui per correre 100 (106 vah) miglia: lunghe, toste e del tutto sconosciute (bella differenza rispetto al giardino di casa del SDW). 

Usciti da Labin si va così subito in una bella discesa in mezzo al bosco, e mi trovo subito „tappato“ dietro una coppia che parla, parla, parla. Parlano di tutto: di scarpe, terreno, animali, Reunion e Tor, e parlano forte, specie lui. 

Che fastidio, penso. Questi me li devo levare subito di mezzo, le voci mi stancano, mi levano ancora più dalla mia dimensione che già è precaria che di più non si può. E poi lei ha sti cavolo di bastoncini puntati all´indietro che neppure la Vonn ed ogni passo rischio di essere infilzato, e lui ha un accento insopportabile. 

Così li supero su sto cavolo di sentierino in discesa, e commetto un altro errore fondamentale, o meglio riconosco un altro errore, che poi commetterò ancora nelle ore successive: non ho pazienza. Perchè poi il sentierino si apre più sotto in uno stradone larghissimo che costeggia il mare. Voglio dire, ci sarebbe stato tutto il tempo per superare qualcuno, no? E invece no, questa stanchezza mi sta portando fretta, fretta di andare non so dove. Alla prima aid station? Alla grande aid station (e spartiacque tecnico del percorso) di Buzet? O fretta di arrivare al traguardo e rivedere Ari? O forse è solo fretta di fare il prossimo passo, di accorciare questa follia. 

Vabeh, intanto godiamoci il mare vah. Dovremmo essere adesso sul lungomare di Rabac, almeno questo dice la cartina gps che sto spulciando mentre butto giù queste righe. Il mare è sempre bello  comunque. Ti da qualcosa da guardare, da immaginare e nel mio caso pure da annusare e ricordare. 

Delle simpatiche vecchiette fanno la „ola“ al passaggio di ogni concorrente. Poi ovviamente si fermano a chiacchierare con quello che passa prima di me, e così quando passo io neppure mi degnano di un´attenzione. E così le simpatiche vecchiette diventano subito vecchie stronze. 

Però non è neppure male questo terreno così rollante adesso, riesco a corricchiare anche quando c´è un accenno di salita, dai che magari è tutta così, potrei abituarmici…

…e invece no. BANG, svolta a sinistra e rampa decisa per uscire da paese. Era prevedibile dai. Questa Istria 100 ha pur sempre 7000 metri di dislivello, da qualche parte bisogna pure cominciare, giusto?

Entriamo quindi in questa pineta o bosco che sia, e subito ricevo un´altra „brutta sorpresa“: il terreno cazzo, il terreno è una roba inimmaginabile. Ok, stiamo pur sempre correndo un ultratrail. Trail, sentiero. Qindi poco asfalto, quindi quel po´di wild che va bene comunque. 

Ecco, peccato che io il wild lo avessi immaginato e capito per più avanti, e che almeno queste prime 15-20 miglia me le sarei pensate belle morbide, ondulate, corribili insomma, qualunque cosa voglia dire. 

Col cavolo: il pendio sarà anche non troppo ripido, ma il terreno appunto è un misto di pietroni, sabbia, ghiaia e asfalto rotto, e ogni passo diventa comunque impegnativo, meditato. E´difficile prenderci il ritmo su questo tappeto, figuriamoci correrlo bene (specie se non ti chiami D-Bo o non sei uno di quei mostri lì davanti). 

Altro errore quindi: conosci il terreno, sempre. Magari non puoi correrci sopra ogni giorno, ma almeno informati, leggi, impara. Altrimenti ti trovi comunque in un attimo di spaesamento generale. E ti va via altra energia, altra concentrazione, altra voglia. 

Penso di nuovo ai pomeriggi di divano, o all´avanti e indietro sulla mia collina in mezzo alle vigne, quando mi dicevo „ma sì dai, le gambe non ci saranno, ma almeno c´è la testa. Dai che andrà bene, e poi che vuoi che sia questo carso, bastano due vasche in mezzo alle vigne no?“. 

Col carso che bastano. Istria sta cambiando faccia, decisamente. O meglio sta mostrando la sua faccia, quella vera e non turistica. E il Gioco pure mi sta mostrando la sua faccia. E io sono qui, a non voler neppure guardare la mia di faccia. A non riconoscermi. Stanco, senza pazienza e senza neppure aver fatto i compiti a casa. A non amare quello che sto facendo. A non amare il Gioco. Di male in peggio insomma. 

In qualche modo scollino la prima salita di giornata. Un vento della madonna in cima (strano…) e discesa fatta sulle uova nel tentativo di salvare il salvabile tra quads e ginocchia, visto quello che ho visto, che vedo e che so che vedrò nelle prossime ore. 

Guardo l´orologio e faccio un breve calcolo di distanza, credo che tra un po´dovremmo arrivare alla prima aid. Mi sono anche un filo calmato e la fretta sembra almeno essersi allontanata per un po´. Ora sto cominciando a correre un po´di più „la mia gara“. Supero sempre gente, ma stavolta cerco di godermela un attimo di più. Apparenza, col senno di poi, ma in quel momento comunque mi sono sentito bene e abbastanza centrato. 

Altra rasoiata per arrivare a questa benedetta aid, Plomin credo che si chiama, intorno al miglio 11. 

Tutti gentilissimi ovviamente, c´è il giusto. Tea caldo, acqua, coca e frutta, e credo anche qualche biscotto. Sono in ballo da due ore e mezza più o meno, neppure malissimo mi dico. Dai che magari se si va di aid station in aid station, in qualche modo la si porta a casa. 

Il pomeriggio intanto sta tramontando piano piano. Non di un tramonto deciso, bensì di uno di quei tramonti di inizio Primavera che sembrano non finire mai. L´aria è fresca, ora vedo meno gente intorno a me e il bosco sembra man mano chiudersi sopra di noi, farsi più fitto. 

Stiamo salendo decisi adesso in altitudine, i pini e la vegetazione marittima stanno lasciando spazio a roba più di montagna. Rocce e sentierini single track abbastanza selvaggi, qui c´è da camminare in fila. Toh, un bel gruppetto di italiani con donna che chiacchiera e dice cose belle e simpatiche, quasi quasi mi accodo e mi faccio tirare un po´. E invece no. Toh, la fretta, ancora lei. Via cazzo, fatemi fare il mio passo. E tu stai un po´zitta e vai. 

Incredibile come possano cambiare prospettive, punti di vista e visione nello spazio anche di pochissimi minuti. Ecco uno dei motivi per i quali questo Gioco è malvagio: ti svolta e rivolta come un guanto come piace a lui, e tu accetti, stai zitto e fai fatica, continui a far fatica, sempre più fatica. Fisica e di testa, tutto insieme. Un frullatore mentale e fisico lasciato acceso in continuazione. 

Altro scollinamento, in cima in mezzo al nulla due tizi con un fuoco acceso. E se mi fermassi 30 secondi a resettare, a respirare un attimo? A chiacchierare con questa donna che dice cose belle e simpatiche? 

No, non c´è tempo (ma di cosa?). Sta venendo buio adesso, sul serio. Metto la frontale. E subito mi accorgo di una cosa. Cavoli, questa è una bella frontale, anche più forte della fidatissima Silva usata a SDW (che comunque ho dietro come riserva). Da me nelle serate tardo invernali mi ha sempre illuminato il Weg quasi a giorno, mi ci sono sempre sentito a posto e in controllo fino ad ora. 

Qui è micidiale. Qui illumina appena il sentiero intorno e davanti a me. E non sono le batterie. E neppure la mia stanchezza, che pure c´è ed anzi sta aumentando con una curva sempre più ripida. 

Qui la notte è buia. Di un buio mai visto prima. Nera. In questo bosco chissà dove in un posto mai visto, mi sento per la prima volta veramente nel buio. E come ho scritto prima, mi accorgo di avere paura. 

La paura è una sensazione strana. E´anzitutto una sensazione del tutto naturale, nella vita di tutti i giorni. La paura ci aiuta a essere prudenti nelle cose, rispettosi di noi stessi e di chi ci sta intorno. La devi abbracciare la paura, così come la fatica. Non c´è niente di male ad aver paura. Aver paura del buio? Ancor più naturale. Tutti abbiamo paura del buio, da quando siamo bambini. Agli ultrarunner piace correre di notte nei boschi? Stronzate. Gli ultrarunner hanno una pura fottuta dei boschi di notte, è che ci corrono perchè la vogliono accettare questa paura, interiorizzare, abbracciare appunto. 

Il problema qual´è: è che se però tu sei schiacciato in quel momento da stanchezza, mancanza di energie e desiderio, fretta, ansia, allora cominci a rifiutare la paura. Ad „avere paura della paura“. Ad avere paura di scoprirti debole, piccolo di una dimensione infinitesimale, inutile di fronte alla grandezza di quello che ti sta intorno, che siano le placide colline del Sussex, i boschi scuri e altissimi dello Schwarzwald o la Wildnis cattiva del carso istriano. 

Ho paura del buio cazzo, e diciamo che non si tratta proprio della condizione mentale ideale per mettersi a tavola con una notte come questa. 

Finalmente almeno finisce il bosco e adesso si procede su una bella cresta rocciosa ma abbastanza aperta. Siamo un gruppetto, incrocio di linguaggi e gesti. C´è un super atletone, un paio di tizi che bestemmiano in chissà quale lingua e una tizia che va come un carroarmato quando sta bene e che spara preghiere in chissà quale lingua quando è in crisi. 

Seconda aid station. Oddio aid station. Una tenda con due giganti croati volontari. Non c´è acqua, quella la portano più tardi. E quella cos´è, chiedo, indicando una bottiglia con liquido trasparente. Ah, „inserire definizione di alcool puro con polvere da sparo in croato“, ne vuoi un po´mi chiedono. 

No grazie. Bene l´ ospitalità e la generosità dei volontari è, ma l´ultima cosa che voglio adesso è andare in trip alcoolico su questa cavolo di cresta, che finirei per abbandonarmi a qualche colonna di sassi e pascolo in mezzo al nulla. O magari vorrei proprio questo, almeno finirebbe tutto, e se ne andrebbe via pure la paura del buio. 

E poi c´è un piccolissimo particolare in effetti. Non sto mangiando nulla, dalla partenza. A parte proprio uno o due spicchi d´arancia lì a Plomin, l´ultima volta che ho masticato qualcosa è stato proprio sulla piazza di Labin. Dietro ho gel, barrette e cucuzzaro salino assortito. Non ho mai, neanche per un istante, avuto voglia di tirar giù un gel. Niente. 

Altro errore quindi: non aver allenato, oltre alla distanza, al terreno e al dislivello, la strategia alimentare. Quella che a SDW, con tutte le mancanze e le cose da migliorare del caso, mi aveva portato fino al traguardo. Oggi lo stomaco sta dicendo no, da subito, e la testa pure. Sarà che quella stanchezza generale mi si sta insinuando dentro, chiudendomi la fame e il desiderio di mangiare, fatto sta che sento che la benzina sta finendo, proprio quando si avvicinano le ore notturne più critiche. 

Ora per altro non sto neppure andando malissimo. Me la godo perfino. Si alza un filo di vento, giacca subito e si continua. Entro in un altro boschetto, vedo qualche luce di un mini paesello. 

Ma è una gioia che dura pochissimo. 

Alzo gli occhi dal paesello in direzione montagna, e vedo luci frontali. Poi alzo ancora gli occhi, e vedo altre luci frontali. Arrivo ad alzare così tanto lo sguardo da non distinguere più stelle e luci frontali. E poi una luce rossa, ben visibile, che sembra un pianeta incastonato nel firmamento. 

E invece no. Le stelle sono luci frontali. La luce rossa è quella di una mega antenna. Fuck, è lei. Ucka, in tutta la sua imponenza, solcata da una marcia di runner che non sai se è di sofferenza, espiazione, redenzione o tutto insieme. 

Non ditemi che ve la state godendo. Qui non c´è un cazzo da godere. Ucka non la godi. Ucka la soffri, la maledici, la preghi di lasciarti intero fino in cima e di farti passare. Ucka può spazzarti via. Fisicamente e mentalmente.

Probabilmente sì, se gli Dei del Gioco avessero una casa, non sarebbe il placido Bianco e neppure il mio amatissimo Cervino. Sarebbe probabilmente questo gigantesco sasso che domina il golfo con Rijeka in lontananza, che sembra arrapicarsi lassù e non finire mai. 

Terre irredente le chiamava qualcuno. Qui di irredento in realtà ci siamo solo noi, le nostre esistenze inutili ed effimere, le nostre rinunce e i nostri fallimenti. 

La montagna sa tutto, sempre, prima durante e dopo. La montagna non perdona. La montagna non mente. 

Mi si chiude il respiro ad ogni passo, ma quando arriva questa cima. Che forse poi di là ci dovrebbe essere una aid station da qualche parte.

MI fa male tutto. Gambe certo, ma pure mani e braccia, a tenere e usare questi bastoncini a cui non sono abituato (ma che fortuna ad averli avuti, consigliatissimi in ogni caso). 

Oh finalmente la cima, non ne posso più adesso, Ucka mi ha asciugato del tutto. Sono intero per fortuna, ma sono completamente finito. 

MI infilo nel bosco in discesa. Un bosco di nuovo scuro e nero, che copre tutto. Mi fermo ad ogni dieci passi cercando di trovare la mia impronta, il mio passo, il mio ritmo. Per fare un check generale: stomaco vuoto, quadricipiti andati, piedi che urlano, respiro che non va e occhi che si chiudono. Bene ma non benissimo insomma. 

Tutto questo appena interrotto da qualche „good job“ detto col poco fiato che ho a ogni runner che adesso mi supera in questo bosco. Cavoli c´è gente che scende giù come se fosse appena partita. Coordinata, balzi decisi e veloci, sembrano galleggiare. E io qui invece ad affondare nel buio, da solo. Da solo come mai mi ero sentito prima.

Cosa potrebbe salvarmi dall´affondamento totale? Ma certo, le voci delle sirene. Un posto felice, magico. Un´oasi. Dove dimenticare tutto, buttarsi comodi. Bevande calde, cibo, sorrisi, parole. Insomma, la terza aid station („il terzo ristoro“ penso in quel momento). 

Prima la immagino, la desidero, la penso. Poi la sento. Musica e voci in lontananza. E poi ecco che la intravedo tra gli alberi. Che meraviglia. Luci colorate appese agli alberi, tendoni giganti, musica a palla. „Ehi, se c´è un posto giusto per ritirarsi è questo, che dici?“. Chi ha parlato mi chiedo, ma lo so benissimo. 

E´la testa. O meglio, quella vocina dentro alla testa. La stessa che prima di Washington al SDW mi diceva „cazzo ti vuoi ritirare qui stronzo, che è più facile andare fino a Eastbourne“. 

Perchè non mi dice lo stesso adesso? Perchè non mi dice „ehi dai, bevi qualcosa un attimo, prendi fiato, fatti coccolare da queste simpatiche volontarie tutte sorriso e Red Bull, e poi vai che prima o poi ´sta notte finisce“? 

Ma soprattutto, perchè non c´è nessuno adesso, in questa aid station, che mi metta a posto per davvero? Una voce amica, un sms, qualcosa. Fanculo alle signorine Red Bull, fanculo al volontario che mi dice „dai, c´è un bel rifugio qui, è già pieno di runners ritirati, entraci un attimo, bevi un tea caldo“. No, non ho bisogno di questo adesso. Ho bisogno di un calcio in culo, forte, deciso. Svegliatemi, mandatemi la fuori e ditemi che è ok. E´ok essere stanchi se non hai dormito, è ok avere fame se non hai mangiato, è ok aver paura del buio in questo inferno. 

E invece nulla. Il volontario in perfetto italiano mi spiega che non c´è problema se voglio ritirarmi, devo solo comunicarlo alla signorina col quaderno. Non c´è problema per il rifugio, dentro fa calduccio e ci si conforta a vicenda con gli altri. Un signore, il custode del rifugio, senza parlare e senza voler niente mi da un bicchierone di tea che mi sembra il tea più buono del mondo. E così comunico il mio DNF alla signorina con il quaderno. E lei senza troppa pietà tira una bella riga sul mio nome e numero. Tutto finito. Una riga a penna, e tre lettere micidiali che rimbombano in testa. DNF, Did Not Finish. Poi sì ti diranno pure che DNF vuol dire Did Nothing Fatal  o cose così, ma la verità è una sola. Non hai finito, punto. Senza drammi o sofferenze, ma non hai finito. Magari nel mio caso sarebbe più un „Did Not Focused“ o una cosa così, visto tutto quanto scritto e provato, fatto sta che stavolta non ci sarà una bella medaglia di finisher ad aspettarmi sotto il cuscinone dell´arrivo, e che gli unici cuscini che mi aspettano sono quelli dell´albergo, nel quale però contavo di dormire la notte dopo. 

In neanche poi un´oretta arriva pure il furgone che ci porterà indietro a Umag via Buzet (ah, nota a mergine: non ritiratevi a Istria 100. Non conviene. Il viaggio da Poklon  - questo il nome della aid 3 in effetti -  a Umag, con furgone sgangherato su strada tutta curve in discesa, e´diciamo una di quelle esperienze che vuoi fare una volta, e basta). 

Arriviamo comunque a Umag a notte tardissima, quasi l´alba. Fa freddo, siamo tutti stanchi e fulminati, qualche saluto ancora e riesco perfino a farmi dare un passaggio da un runner verso l´albergo, che almeno mi risparmio la marcia dei quitters con drop bag e zaino a tracolla. 

Ari è sveglia più o meno, riesco a infilarmi in doccia e poi dritto sotto le coperte. 

Non ne posso più, di questa corsa, di questa notte, di me stesso, di tutto. 

Il dopo. 

La Domenica poi è passata tutto sommato bene. Con Ari abbiamo fatto due passi ancora sul lungomare, siamo riusciti a vedere l´arrivo del secondo e del terzo, a mangiare cevapcici (che nella mia visione dovevano essere la mia post race indulgence) e a comprare qualche prodotto tipico della zona dalle bancarelle del paese. 

Al Lunedì poi abbiamo fatto nuovamente rotta verso casa. 

Sono passati ad oggi circa due mesi da quel weekend. Ce ne ho messo di tempo in effetti per mettere giù questa cosa, racconto o report o qualunque cosa sia. 

Mi sono chiesto spesso se ne valesse la pena. Se ne avessi voglia. Se sarebbe fregato qualcosa a qualcuno di tutto. 

Ma soprattutto mi sono chiesto come sarebbe stato tornare su quei momenti, su quelle giornate, su quell´esperienza, su quel sentiero e su quella notte. Il che rende questi report ancora più inutili, in una società e in un mondo di attualità, cronaca, contemporaneità. 

Poi stamattina, indovinate un po´, facendo avanti e indietro sulla mia collina, ho pensato che magari era venuto il momento di riavvolgere il nastro. Di tornare in quella dimensione, stavolta magari con un punto di vista esterno, più distaccato, avvolto del balsamo del tempo che allevia tutto o quasi. 

Perchè certe „ferite“ che hai dentro comunque ti restano. Le mie ferite, le mie cicatrici di questa Istria sono appunto un senso di incompletezza, di incompiuto. E di tradimento. Di tradimento del Gioco, delle sue regole scritte e non. Di tradimento di me stesso e del modo che ho di vedere la corsa, di quello che la corsa stessa comunque mi ha dato. Un senso generale di non aver fatto le cose „the right way“ per dirla con coach Brown. 

Ho tradito la fatica, che invece ho abbracciato tante volte, ricambiato. Ho lasciato che il buio di quella notte mi rendesse scuri anche i pensieri, e ho lasciato che la tentazione di un ritiro facile avesse il sopravvento sul sentimento di accettazione, forte, positiva, che devi comunque avere quando ti presenti al via di una 100. 

Perchè una 100 la devi amare, desiderare. La devi rispettare, ne devi anche avere paura, certo. Ma devi poterla fare tua, lasciarti portare da lei. Aspettarla, con pazienza e senza fretta. 

E viverla, un miglio alla volta. 

Cosa farò in futuro: qualche idea c´è, di sicuro. Quello che posso dire è che non ho rinunciato a correre una 100, di nuovo, the right way. Come, dove e quando, si vedrà. 

Nel frattempo esco a correre. 

Come sempre, on trail.

Manu