Eccomi finalmente a buttare giù due righe su Ulm...o meglio, anche su Ulm, su quello che doveva essere (e per certi versi, lo è stato) l'appuntamento clou della mia "stagione" di corsa.
Da quando ai primi di Gennaio avevo deciso di tentare il grande salto nella distanza a tripla cifra, con conseguente iscrizione, gli allenamenti, i sentieri, i discorsi e i pensieri, insomma la mia corsa, aveva iniziato a ruotare intorno a quel sogno, a quel traguardo, al mitico giro della pista di atletica dello stadio di Blaustein che precede l'arrivo (questa della pista di atletica all'arrivo di una ultra, devo averla già sentita...). E poi ancora a trascorrere le settimane scorrendo le pagine web della manifestazione, spulciando e rispulciando il regolamento in cerca di possibili punti oscuri, sorprese su materiale obbligatorio o chissà quali requisiti.
I km sono così scorsi veloci in questi mesi, con qualche piacevole intermezzo (o banco di prova vero e proprio) come la maratona a Friburgo (sulla quale vi ho già abbondantemente stracciato i neuroni) e qualche garetta qui dalle mie parti, a farsi fare il mazzo dalle gambe veloci di mezza regione e però in compenso pure a sudare, far due parole con grandi runners e darci dentro con adrenalina a fondoscala. Insomma, tutto bene. O quasi.
Succede che due settimane prima del grande giorno (anzi, della grande notte), decido di programmare una ultima uscita un po' "di sostanza" (diciamo, 15-20 km), perdipiù puro "trail" (in parziale controtendenza proprio con Ulm, che pur presentandosi come ultra collinare, è comunque corsa per la stragrande parte su asfalto) con il mio caro amico W., membro della Dritte Verpflegungsstation (sezione tedesca del #Terzoristoro), grandissimo runner e piacevolissima compagnia di corsa e chilometri).
Ci si butta così un Sabato mattina sui sentieri che stanno dietro Friburgo: il solito spettacolo: single track di gran corribilità e super goderecci, tempo giusto per correre, morale a mille. Eppure...eppure ad un certo punto sento "qualcosina" al ginocchio dxt. Una sensazione di indolenzimento, che ad ogni passo aumenta e quasi subito mi costringe ad assumere uno stile di corsa piuttosto innaturale (già sono un disastro da vedere quando mi trovo in presunto equilibrio meccanico, figuriamoci quando comincio a compensare). Non riesco ad appoggiare in discesa, ca@zo da fastidio. Non è una pugnalata fitta, nè una sensazione di crac...è insomma, non la faccio lunga, la tipica sindrome della bandelletta IT. Completiamo comunque il breve allenamento (alla fine saranno 14km) e una volta a casa il fastidio non accenna ad andar via (anche se poi decido di non farci più caso, sperando in cuor mio di risolvere tutto nell'arco del pomeriggio).
E invece no. Il giorno dopo resto a riposo e il fastidio sembra sparire. Così ancora il Lunedì provo un'uscita mattutina prima di andare al treno. Dopo una 40ina di minuti, ecco che il fastidio ritorna ancora...e insomma, riassumendo, le successive due settimane, quelle appunto che avrebbero dovuto essere di puro e tranquillo tapering pre-Ulm, si trasformano in una sorta di inseguimento al dolore, per capire se c'è ancora, se è andato via o più probabilmente per cominciare a pensare a come gestirlo a Ulm, perchè so già che questo bastardo mi farà compagnia in quelle ore. Insomma, almeno mentalmente, non il modo giusto di avvicinarsi all'avventura tanto sognata e preparata. Noto soltanto che in bici il ginocchio non da fastidio, ma più che una consolazione, è l'ennesima conferma della diagnosi di cui sopra.
E arriva il giorno della partenza per Ulm (il Venerdì mattina: la gara partirà poi alle 23). Durante il viaggio che mi porta al paese sede della gara, ho occasione di ripensare ancora a questi mesi, e provo un misto di gioia (per essere comunque arrivato finalmente al grande giorno) e dispiacere, perchè sono consapevole che decisamente, non andrà come sperato.
Pochi minuti prima dello start: my crew runs with me. |
H 23: si parte. I fuochi d'artificio di Blaustein (che piucchealtro parevano i razzi della contraerea a Bagdad '91) salutano il gruppo che si invola nella campagna addormentata. Io parto in fondo al gruppo, come quasi sempre, e cerco di misurare ogni passo. Cammino, anzi trotterello, letteralmente sulle uova. So che arriverà quel fastidio, che comincerà a far male, non so ancora quanto e come riuscirò a negoziare con il ginocchio, con la mente e con quei caz@zo di demoni che albergano a bordostrada di una qualsiasi ultra e che ti spiegano che tutto sommato, il divano di casa non era poi un'idea così sbagliata. Nella testa risuonano due espressioni: il "gli metto il silenziatore" del mio fratello di corsa Davide @Blackmagic, che con una roba come la mia ci ha corso (e come, poi!) la WS 2012, e il detto di Ann Trason (anch'esso suggeritomi da Davide): "It hurts up to a point and then it doesn't get any worse." E così procedo.
Dopo 35 minuti e (circa) 6 km percorsi, eccolo lì. Arriva, maledetto. E' venuto apposta a rovinarmi una notte favolosa, una gara stupenda su un super percorso in mezzo a gente fantastica. Cambia la respirazione, cambia il passo, cambia tutto. Me@da, ho davanti più di 90 km: o questa cosa si stabilizza adesso, oppure continuare diventa dura. Eppure, nemmeno per un attimo mi coglie il proposito di fermarmi, di rinunciare, di tornare indietro. Diamine, voglio quel traguardo. Ho lavorato così duramente per essere lì, e se non potrò correre, vorrà dire che ci arriverò camminando. Inizio così ad alternare corsette leggerissime e sempre più brevi, con power hiking puro, forte, di rabbia agonistica, pure un po' di frustrazione, a tal punto che riesco a superare pure qualche runner dallo sguardo quantomeno perplesso.
Forse troppo forte, però. Infatti la camminata baldanzosa diventa dopo un po' trotto leggero, e poi ancora camminata normale.
Manca ormai un niente allo stadio di "camminata dell'ARMIR", quando capisco che cavolo, di questo passo tra qualche km non riuscirò neppure a camminare. Fa male, fa sempre più male. Ormai tutto il ginocchio è completamente bloccato, e il solo appoggiare il piede mi provoca un dolore lancinante. Comincio a vedere annebbiato (sono pure le 3 del mattino, e non aver allenato a sufficienza la corsa notturna è stato certamente un errore) eppure sono ben idratato e alimentato. Ora cammino storto, quasi in preda all'ubriachezza, e le luci della campagna che prima mi sommergevano di energia ed euforia, sembrano ora disegnare fasci luminosi indistinguibili e irraggiungibili). La mente comincia a fare giochi strani del tipo "dai, andiamo fino al 50° km, poi vediamo", oppure "prova a trascinarti solo con le mani" ed altro che qui taccio per non coprirmi ulteriormente di ridicolo.
E così, lentamente, il dolore ha la meglio.
La voglia c'è sempre, ma ora nel cuore alberga il pensiero che è finita, che al traguardo non ci arriverò mai, che insomma il mio sogno di toccare cifra 100 km è infranto. La pista è segnata ormai solo dal fascio della mia frontale, sono da solo in mezzo alla campagna in un posto sconosciuto, riesco solo a zoppicare molto lentamente e perdipiù, comincio ad avere i brividi di freddo (altra ca@zata: non immaginare che al 21 Giugno, non dappertutto ci sia la classica notte estiva da 25 gradi fissi: a Ulm il termometro segnava in quelle ore un "più che discreto" 8° C): finchè avevo potuto correre o camminare bene, mi ero mantenuto caldo, ma ora il tutto rischiava di trasformarsi in un enorme casino (lo ammetto, ho paura del freddo). Per fortuna però vedo in lontananza le luci del ristoro del 33 km. Sempre più lentamente e dolorosamente, arrivo così a raggiungere questi 4 tavoli imbanditi con bevande ISO e frutta secca, e gestiti da un pugno di ragazzi che stanno lì a gelare pure loro, sotto le coperte di lana, in attesa di noi corridori.
Nessun dubbio, la mia 100K finisce qui. Con la poca lucidità rimasta, faccio in tempo a chiedere un tea caldo e una coperta (terza e ultima caz@ata: aver dimenticato a casa, proprio stavolta, il telo di sopravvivenza, che porto dietro sempre, pure in caso di allenamento fuori casa). Vicino a me, un altro runner ritirato a quel ristoro (lui per problemi di respirazione). Passa una buona oretta prima che ci raggiunga un auto dell'organizzazione, che ci riporterà dopo un'altra mezzoretta di viaggio al paese di partenza (se ci penso, pure un tizio che si smazza chilometri in auto nel bel mezzo della notte per raccattare runners ritirati, deve averne di cuore).
2 ore dopo, mentre fuori albeggia, sono al caldo in albergo. Al ginocchio bloccato, si aggiunge pure il fastidio ai tendini dell'altra gamba, che non avendo goduto del solito stretching che le dedico nel post-corsa, ha deciso che la mattina mi presenterà il conto in termini di durezza e acciacchi vari. Mi sveglio dopo qualche ora, e completamente bloccato scendo a fare colazione (impossibile pensare di far le scale, bene che ci fosse un ascensore, per quanto clastrofobico).
Poi, una scelta che mi pesa, ma che sento giusta: siamo intorno alle 12 ore di gara, ormai i runners stanno arrivando con buona frequenza (il primo per capirci, ce ne ha messe poco più di 8). Voglio andare allo stadio a vederli, ad applaudirli, ad incitarli...e ad incazzarmi con me stesso, per non essere anch'io lì a calcare quel tartan. Mi trascino fino all'impianto e mi siedo nel prato interno alla pista. Ad ogni runner partono saluti e incoraggiamenti, arrivano le staffette, poi quelli della 50km, poi ancora i camminatori (quelli che si sono insomma sorbettati 100 km in puro stile escursionismo). E mentre sono lì a guardare tutto questo, succede una cosa strana.
Certo, mi fa male dappertutto, e ci vorranno giorni, se non settimane, prima che le infiammazioni vadano via (per tacere della IT, in quel momento non so ancora quanto mi ci vorrà prima di tornare a correre).
Eppure, ora "la notte" (quella dell'anima, delle ore di sofferenza trascorse sulla pista) sembra pian piano svanire.
In quella mattina ora assolata e calda, anche il freddo patito sembra abbandonare il cuore e la testa. Ogni corridore, con il suo sorriso o con la faccia stravolta, con un urlo di gioia o con un semplice cenno, mi da nuova energia, mi trasmette insomma una iperdose di endorfine che riesco così a godermi pur "soltanto" da spettatore. E' una cosa difficile da spiegare, me ne rendo conto.
Però...però è questo in fondo che volevo raccontare con queste righe. Le manifestazioni, i numeri di gara, i tracciati, i dislivelli e i chilometri, certo che sono importanti. Eppure...c'è dell'altro. Tempo fa avevo scritto che dobbiamo pur sempre ritenerci fortunati nel poter fare ciò che facciamo, che amiamo: sia esso correre, andare in bici o vivere l'aria aperta. E che in qualche modo, dovremmo noi stessi farci portatori di questa energia, della nostra gioia insomma, e di condividerla con chi magari a tutto questo non può arrivare direttamente. Correre anche per chi non può correre, cercare sempre e comunque di donare qualcosa di utile, di positivo, una ricchezza nuova, non misurabile nè in distanze percorse nè tantomeno in coppe e medaglie.
All'inizio ho scritto che anche "la mia corsa" aveva cominciato a ruotare intorno a Ulm, a "quanto ci avrei messo" e a "come mi sarei gestito", ecc...Ecco, non me ne ero accorto, ma nella mia ossessione (certo, positiva, ma pur sempre ossessione) per un traguardo da raggiungere, avevo dimenticato "quella cosa", quella poesia, quella ragione primitiva che muove il motore di chiunque cerchi qualcosa fuori casa. Pensavo così che quel traguardo, la maglietta di finisher e tutte le patacche assortite, avrebbero costituito per me un fattore giudicante di me come persona, ancor prima che come runner (che poi, definirmi "runner" è davvero presuntuoso).
Fanc@lo, non è niente di tutto questo.
E più passavano le ore (mi sono fatto un'abbronzata in quello stadio che sfrigola ancora adesso) e più mi appariva tutto più chiaro e nitido. Capivo ora che se avevo deciso di partire pur sapendo di non avere chance di arrivare, lo avevo fatto perchè in cuor mio sapevo che quella notte sarebbe stata la più lunga, sofferta e grandiosa della mia vita. Sapevo ora "che cosa" il dolore mi aveva voluto trasmettere in quelle ore: la consapevolezza che ogni passo non è mai scontato, che per quanto tu possa essere circondato dalla compagnia più solidale, resta pur sempre un viaggio dentro te stesso, dentro le tue aspettative e le tue paure. Capivo ora che spesso, nella corsa come nella vita (che tanto, lo ribadisco sempre, sono la stessa cosa), la nostra strada può davvero essere tracciata solo da una luce in mezzo alle tenebre: ma è la luce del nostro cuore e della nostra volontà, quella insomma che ci porta ad affrontare colline e dirupi della nostra esistenza con la stessa cazzimma con cui quell'amico spiana i sentieri del Bianco o quell'altro taglia il traguardo di Auburn.
Avevo capito insomma, che anche alla fine della notte più lunga e fredda, ritornano l'alba, il giorno, il Sole a scaldarti muscoli e anima. E ti scappa così, dopo tante ore, finalmente un sorriso: perchè sai, so, che in cuor mio, io di quella notte, del dolore provato, del freddo, della stanchezza, di tutto ciò mescolato, ho amato ogni singolo istante.
P.s: è passata qualche settimana da quel weekend. Gli acciacchi sono andati quasi tutti a posto. E anche la sindrome IT è quasi passata: vado in bici con buona regolarità, godendomi i sentieri delle mie zone, e l'altro giorno sono pure riuscito a correre circa 45 minuti, senza provare quasi alcun fastidio: faceva un caldo infernale, il Blauen pareva Mount Whitney, e il passo era imbarazzante. Ma era tanto che non mi sentivo così felice.
P.s 2: Grazie a tutti gli amici, fratelli e compagni di crew, che in queste settimane mi hanno chiesto com'era andata e come stavo. Non vi cito, ma sapete tutti "chi siete": un abbraccio forte a tutti. Questo post è dedicato anche un po' a voi, che continuate ad essere una incredibile fonte di ispirazione, di corsa e di vita. Sono orgoglioso di esservi amico, e di condividere qualche passo sul sentiero insieme a voi.
#Terzoristoro #OnTrail
Manu